Giunse al piacere. Matteo era seduto sul water con le mutande calate fino alle caviglie, in uno stato di silente apnea per non rischiare di farsi sentire al di fuori della porta del bagno. Riversò il suo seme per lo più all’interno della tazza, sporcando la tavoletta con qualche schizzo. Si pulì svogliatamente con un pezzo di carta igienica. Poi tirò su i pantaloni, guardandosi per un breve istante allo specchio. In mano aveva ancora il telefono con la foto di un seno a tutto schermo.
L’aveva conosciuta alla “Sagra del rapanello”, che ogni anno si svolge alla fine del mese di agosto a Castellamorte (così i residenti chiamano la poco vivace cittadina di Castellardore). Avevano ballato fino a tarda notte strusciandosi sempre più stretti fino al fatidico bacio. Matteo, nonostante i diciotto anni da compiere di lì a pochi mesi, aveva dichiarato la sua piena superficialità appena un paio di giorni dopo. Il suo messaggio diabetico terminava con un “Ti amo, penso che staremo assieme per tutta la vita”, seguito da una serie irripetibile di emoji.
Marta era più incerta sull’evolversi del rapporto con quel ragazzone, tanto bello quanto sempliciotto. Da un lato le toglieva il fiato, ma dall’altro la lasciava perplessa sul futuro. Non aveva mai avuto una relazione seria prima di quella, era vergine e senza alcuna intenzione di bruciare le tappe. Aveva sedici anni ed era cresciuta con un padre conservatore, un cattolico devoto sempre infervorato per la deriva immorale del mondo.
Anche se non le aveva mai fatto mancare nulla, Marta si sentiva ingabbiata in un mondo familiare stretto e anaffettivo. Ecco perché Matteo le era sembrato la chiave per aprire quella gabbia dorata, ma come tutte le libertà, pure questa comportava paure e insicurezze. Perciò agiva a piccoli passi, senza spingersi troppo oltre in una sola volta.
Durante quei primi mesi di relazione aveva iniziato a esplorare timidamente la sua sessualità, espandendo a poco a poco la sua zona di comfort. Se da un lato lei procedeva con prudenza, dall’altro lui cercava subdolamente di forzare la mano. Per esempio, continuava a insistere per scambiarsi foto piccanti, esordendo senza preavviso con un primo piano del suo pene. All’inizio lei non ne voleva sapere, lo trovava stupido e un po’ disgustoso. Però, vedendo la disinvoltura con cui Matteo inviava scatti così intimi, finì col lasciarsi convincere.
Marta si chiuse in bagno con doppia mandata, e si spogliò timorosamente di fronte allo specchio. Prese il telefono con la mano tremante. Aprì la fotocamera. Si avvicinò il più possibile con il corpo, cercando di escludere qualsiasi altro dettaglio ed evitare di inquadrare l’ambiente circostante. Dieci tentativi dopo, riuscì in una foto che le sembrava potesse andare bene. Scrisse in un messaggio: “RESTRICTED. GUARDARE ED ELIMINARE” e cliccò su invio. Per non destare troppi sospetti, prima di uscire tirò l’acqua dello sciacquone.
Matteo tornò in camera sua pienamente soddisfatto della missione appena compiuta, si buttò sul letto e tra un reel e l’altro tornava nella chat con Marta per assaporare la foto prima di cancellarla.
“Minchioni! Chi c’è per una run?”, era un amico di CODkillers, il gruppo Telegram che usavano per organizzare partite online ai videogiochi e condividere un’infinità di stupidaggini ‘da maschi’. Matteo aprì la chat e scrisse: “Ora è troppo tardi, domani sveglia all’alba… vi giro una foto, giurate però sulle vostre madri che guardate e la cancellate subito”. Silenzio, assenso. Mandò l’immagine senza specificare di chi si trattasse, spense la luce e si mise a dormire. Sulla faccia gli rimase il sorriso tronfio di chi riesce a prendere due piccioni con una fava, il piacere intimo e il rispetto degli amici.
Com’era prevedibile, nessuno dei partecipanti al gruppo CODkillers giurò sulla propria madre, e nel giro di un paio di settimane il seno di Marta transitava inconsapevole su un’infinità di schermi, a volte conservato gelosamente come una reliquia, altre eliminato dopo un’occhiata.
Marta viveva nella spensierata inconsapevolezza dell’enorme nube che si stava addensando alle sue spalle. Non aveva mai preso in considerazione l’idea che Matteo avrebbe potuto inoltrare quella foto, e la vita procedeva normale, con le normali piccole preoccupazioni e le normali piccole gioie quotidiane.
Tra una condivisione e l’altra, lo scatto finì sulla chat degli operai del reparto dove lavorava il padre di Marta. Lontano da occhi indiscreti, decise di concedere uno sguardo alla peccaminosa tentazione, prima di cancellarla. Ma i suoi occhi non si soffermarono tanto sulle forme della ragazza, quanto più su un dettaglio insignificante per chiunque altro. Tranne che a lui. Era una piccola macchia, abbastanza anonima, ma decisamente familiare. La vedeva ogni mattina mentre si radeva la barba. Era il residuo di colla lasciato da un vecchio adesivo di Barbie che sua figlia aveva attaccato da bambina, proprio sulla parete davanti allo specchio del bagno.
L’uomo era seduto sul sedile della sua auto nel parcheggio della fabbrica, telefono in mano e occhi fuori dalle orbite. La sua bocca si inarcò in un’espressione mista tra lo sdegno e il disgusto. Era ebbro di rabbia. Si limitò a restare immobile, alzando e abbassando il torace quel tanto che bastava per respirare in modo regolare e smettere di digrignare i denti. Poi mise in moto.
Rientrato a casa andò a chiamare Marta in camera sua. Immediatamente.
“Siediti. E spiegami cos’è questa porcheria”, le urlò addosso, schiaffandole lo schermo del cellulare dritto in faccia e sputando gocce di saliva ovunque.
Il pavimento sotto i piedi di Marta crollò. I muri si fecero più soffocanti e la vista si annebbiò. Ansimava. Nella testa si spalancò un vortice infernale di pensieri sovrapposti. Cosa ci fa la mia foto sul telefono di mio padre? Cosa cazzo sta succedendo? Matteo, grandissimo pezzo di merda, cos’hai fatto? Chi altri l’ha vista? Cosa succederà? Nonostante il fluire torrenziale dei pensieri, non riusciva a focalizzarne uno per intero e tanto meno a prendere fiato per proferire mezza parola. Rimase con gli occhi spalancati e vuoti, cadaverica, sospesa in un limbo di disperazione.
“Proprio una figlia puttana mi doveva capitare? Domani andiamo dal parroco così anche Dio saprà cos’hai fatto e ti punirà per questo.” A ogni affondo Marta sprofondava un po’ di più in sé stessa, chiudendo serratamente la saracinesca con il mondo esterno. Diventò una statua di marmo. Non sentiva più alcun suono, solo un lungo e monotono fischio lontano. Non vedeva più le forme intorno a lei, né i colori. Senza rendersene conto scivolò in camera sua, ci si chiuse a chiave e si sdraiò sul pavimento.
Il mattino seguente tornò a muovere gli arti. Si spogliò completamente e si sedette alla scrivania. Carta e penna alla mano per buttare giù parole veloci e taglienti come schegge. Prese il nastro adesivo e il sacchetto del pranzo del giorno prima. Si sedette sul bordo del letto. Fece un lungo respiro, assaporando la consistenza dell’aria nella sua bocca, e infilò la testa nella plastica. Con le ultime forze che le rimanevano, utilizzò lo scotch per sigillare la busta intorno al collo.
Si coricò sulle lenzuola fresche di bucato e sorrise. Nessuna superficie avrebbe più riflesso il suo corpo.
Sulla scrivania un foglio con una frase.
“In un mondo di vermi, ho scelto di volare via come una farfalla.”